Siamo un team di scienziati e designer che utilizzano le piante per creare innovazioni per il mondo reale.
Chi siamo
Utilizziamo la ricerca scientifica sulle piante per creare soluzioni di design che migliorano e trasformano gli spazi in cui viviamo.
Scopri di più su di noi
Soluzioni
Progettiamo con la natura: Un nuovo approccio alla sostenibilità
Scopri le soluzioni
Architettura basata sulla natura
Monitoraggio Ambientale
Verde e Blu
Design biofilico
Ricerca Scientifica e Visiva
Progetti
Stoccaggio di CO₂ in una piantagione di caffè in Tanzania
Visualizza progetto
Fabbrica dell’Aria in Accademia del Caffé
Visualizza progetto
ConSenso: Monitoraggio ambientale di una piantagione di caffè in Tanzania
Visualizza progetto
Fabbrica dell’Aria in Manifattura Tabacchi
Visualizza progetto
Fabbrica dell’Aria negli uffici Lombardini 22
Visualizza progetto
Fabbrica dell’Aria negli uffici Baker Hughes
Visualizza progetto
Fabbrica dell’Aria presso gli uffici di Pnat
Visualizza progetto
La tecnologia degli impianti è alla base del nostro sistema di depurazione dell'aria.
scopri il prodotto
Magazine
tutti gli articoli
19/12/2024
Nel giugno 2024, sono state effettuate importanti misurazioni per valutare le prestazioni di Fabbrica dell’Aria (FdA), un sistema innovativo di depurazione dell’aria che combina tecnologia e natura. I test sono stati condotti seguendo il metodo AC-4-2022, sviluppato dall’Associazione Americana dei Produttori di Elettrodomestici (AHAM), un protocollo riconosciuto a livello internazionale per la valutazione dell’efficienza dei dispositivi di purificazione dell’aria.
Queste prove, realizzate presso i laboratori statunitensi di Intertek, hanno riguardato un modulo base di 75×75 cm e sono state eseguite in una camera di prova controllata. Durante i test, sono stati introdotti specifici inquinanti a concentrazioni predeterminate per simulare scenari di esposizione reali. Successivamente, è stata valutata la capacità di FdA di ridurre la concentrazione di tali contaminanti una volta interrotta la loro immissione, monitorando il tempo necessario per abbatterli.
Negli spazi chiusi, la qualità dell’aria è spesso compromessa da composti organici volatili (VOCs), particelle sospese e altri contaminanti provenienti da fonti come vernici, mobili, detergenti e apparecchiature elettroniche. Tra questi, la formaldeide, il toluene e il limonene sono particolarmente insidiosi: possono accumularsi nel tempo, causando problemi respiratori, irritazioni e, in casi estremi, effetti tossici cronici. Considerando che trascorriamo oltre il 90% del nostro tempo in ambienti chiusi, migliorare la qualità dell’aria indoor è diventato un imperativo per il benessere e la salute.
Fabbrica dell’Aria si distingue per l’uso di un approccio unico alla purificazione dell’aria, sfruttando i meccanismi naturali delle piante e le loro radici, potenziati da un sistema tecnologico avanzato. Attraverso la fitodepurazione, i microrganismi presenti nel substrato radicale metabolizzano e neutralizzano gli inquinanti, trasformandoli in sostanze innocue. Questo processo non solo è estremamente efficace, ma rappresenta una soluzione ecologica, sostenibile e replicabile su larga scala.
Un parametro fondamentale calcolato durante queste analisi è stato il Clean Air Delivery Rate (CADR), che indica la quantità di aria purificata da uno specifico contaminante che il sistema può fornire in un’ora. Tra gli inquinanti testati figurano VOCs come toluene, limonene, eptano, ammoniaca e formaldeide, scelti per rappresentare una gamma significativa di contaminanti presenti in ambienti interni.
I risultati ottenuti sono stati particolarmente significativi: per la formaldeide, un noto e pericoloso VOC, il sistema FdA ha raggiunto un CADR di 167 m³/h, con una percentuale di abbattimento prossima al 100%, dimostrando l’efficacia straordinaria del dispositivo nel trattare uno dei contaminanti indoor più comuni e dannosi per la salute.
Questi risultati, certificati nei report di Intertek (No. 105667895GRR-001b/d/f), rappresentano una conferma delle potenzialità di FdA, non solo come soluzione tecnologica all’avanguardia ma anche come strumento chiave per promuovere un’aria più pulita e salubre negli ambienti chiusi.
15/11/2024
Il benessere delle comunità umane dipende dalle risorse che la natura fornisce. Queste comprendono materie prime, cibo, acqua, combustibili e suoli fertili che aiutano a pulire e riciclare i rifiuti derivanti dall’attività umana. La natura offre anche “servizi ecosistemici” vitali, come le foreste che assorbono anidride carbonica, la convertono in biomassa e aiutano a combattere il cambiamento climatico. Tuttavia, la capacità della natura di fornire risorse o assorbire rifiuti non è illimitata—questa capacità è nota come biocapacità. Alcune regioni, come l’Amazzonia, hanno alta biocapacità e una domanda umana relativamente bassa. Altre, come le città, richiedono molte più risorse di quelle che i loro ecosistemi possono fornire. Le città dipendono da vaste aree circostanti per procurarsi cibo, acqua e materiali, nonché per assorbire i rifiuti, comprese le emissioni di carbonio. In passato, le città potevano crescere solo tanto quanto gli ecosistemi locali permettevano. Ma con l’ascesa dei combustibili fossili e dei trasporti avanzati, le aree urbane hanno cominciato a importare risorse da zone più lontane, permettendo una crescita rapida e un miglioramento degli standard di vita. Purtroppo, questo ha anche creato problemi ambientali globali. Negli ultimi 150 anni, l’uso eccessivo delle risorse naturali e la dipendenza dai combustibili fossili hanno migliorato le condizioni di vita, ma a costo dell’aumento delle temperature globali e del declino della salute degli ecosistemi.
Nature-Based Solutions (NBS)
Un modo per progettare questi paesaggi ibridi è attraverso le Soluzioni Basate sulla Natura (NBS). Queste strategie utilizzano processi e elementi naturali per risolvere le sfide umane come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare e la perdita di biodiversità. Ad esempio, piantare una foresta può assorbire CO2, aumentare la biodiversità, regolare l’acqua e fornire aree ombreggiate per il tempo libero. A differenza dell’uso tradizionale del suolo, che spesso si concentra su un singolo scopo (come l’agricoltura), le NBS mirano a fornire molteplici benefici dalla stessa area, come la produzione di cibo, la gestione dell’acqua e il supporto ai pollinatori. Per far funzionare queste soluzioni, è necessario che migliorino la biodiversità, assicurando che gli ecosistemi siano abbastanza robusti da adattarsi ai cambiamenti nel tempo. Combinando le NBS, è possibile creare un’infrastruttura verde: una rete di spazi naturali e semi-naturali progettati per fornire una varietà di benefici, dall’aria e acqua più pulite a città più vivibili. Concentrandosi su paesaggi sostenibili e multifunzionali, le NBS consentono alle comunità e all’ambiente di prosperare insieme.
Biodiversità e Paesaggi Ibridi
La biodiversità—essenzialmente la varietà di vita in un’area—è un indicatore chiave della salute degli ecosistemi. Supporta i servizi che gli ecosistemi forniscono, dalla conservazione del carbonio alla produzione di cibo, e rende i sistemi più resilienti ai cambiamenti. Purtroppo, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità sono interconnessi: l’aumento delle temperature e i cicli idrici alterati danneggiano la biodiversità, e questa perdita, a sua volta, indebolisce la capacità degli ecosistemi di mitigare il cambiamento climatico. Lo sviluppo moderno ha frammentato i paesaggi naturali in aree isolate, rendendo più difficile per piante e animali adattarsi ai cambiamenti ambientali. Senza habitat connessi, le specie hanno poche possibilità di sopravvivenza. Anche piccole interruzioni possono minacciare la sopravvivenza delle popolazioni isolate. Per contrastare questo fenomeno, è necessario riconnettere ed espandere gli spazi naturali. Parchi, corridoi verdi, giardini urbani e anche tetti verdi possono essere di aiuto. Questi “paesaggi ibridi” interconnessi supportano sia la natura che la vita umana, offrendo un equilibrio tra lo sviluppo urbano e la preservazione ecologica. Creando tali spazi, possiamo favorire la biodiversità, adattarci ai cambiamenti ambientali e migliorare la vita sia per le persone che per la fauna selvatica.
Le sfide che affrontiamo—cambiamento climatico, perdita di biodiversità e sovrasfruttamento delle risorse naturali—sono intimidatorie, ma rappresentano anche un’opportunità per ripensare il nostro modo di vivere e costruire. Collaborando con la natura anziché contro di essa, possiamo progettare spazi che sostengano sia le persone che il pianeta. La natura non è solo una risorsa da sfruttare; è una partner nella creazione di un futuro più sano e resiliente. Che si tratti di riconnettere gli habitat, supportare la biodiversità o abbracciare le Soluzioni Basate sulla Natura, le scelte che facciamo oggi possono plasmare un domani migliore. È tempo di chiedere città più verdi, proteggere i nostri spazi selvaggi e sostenere soluzioni innovative che pongano la vita—umana e non umana—al centro dei nostri progetti. Perché quando la natura prospera, prosperiamo anche noi. Costruiamo un mondo in cui la sostenibilità non sia solo una parola d’ordine, ma uno stile di vita.
06/09/2024
Nel mese di agosto 2019, l’Unione Europea ha selezionato il progetto Prato Urban Jungle come uno dei 20 vincitori del 4° bando per le Azioni Urbane Innovative (www.uia-initiative.eu), un programma che finanzia progetti pilota per promuovere lo sviluppo urbano sostenibile. L’obiettivo del progetto è testare soluzioni verdi (Soluzioni Basate sulla Natura, o NBS) in edifici pilota all’interno della città di Prato, con l’intento di creare un modello replicabile che possa essere proposto ad altre città europee (www.pratourbanjungle.it). La prima azione realizzata da PNAT, come preparazione per le altre, è stata la creazione di un sistema di valutazione per misurare l’efficacia delle NBS su scala edilizia e nei suoi dintorni. Questo sistema sperimentale, chiamato Urban Jungle Factor, si basa su studi pionieristici condotti in diverse città europee e nordamericane, come Berlino, Malmö e Seattle. Il sistema sviluppato da PNAT assegna un punteggio agli edifici che adottano le NBS, calcolato in base alla superficie dedicata al verde e a un fattore che valuta la qualità dell’intervento secondo criteri come aria, acqua, suolo, cibo, salute e benessere, comfort e biodiversità.
Gli altri due progetti sviluppati da PNAT all’interno di Prato Urban Jungle sono focalizzati sull’agricoltura urbana. Sono state progettate due serre ad alta efficienza per supportare la coltivazione, offrendo benefici economici e sociali, mentre creano spazi per la raccolta della comunità, l’occupazione e l’innovazione sociale.
La struttura agricola in Via Turchia è stata progettata per un complesso di edilizia residenziale sociale. La decisione di creare una serra ad alta efficienza è nata da un’analisi dei bisogni dei residenti: una ricerca preliminare ha indicato che il tasso di occupazione e il reddito familiare della comunità erano al di sotto delle medie comunali. Pertanto, una delle priorità del progetto era creare posti di lavoro retribuiti attraverso l’agricoltura urbana. Con una superficie di circa 250 metri quadrati, la serra è relativamente piccola rispetto alle strutture rurali; tuttavia, è in grado di produrre una grande quantità di prodotti agricoli, utilizzando tecnologie di coltivazione avanzate. Le stime suggeriscono una produzione annua di circa 20 tonnellate, generando attività economica e fornendo posti di lavoro part-time per 10 residenti del complesso, contribuendo così ad aumentare il reddito familiare. Il concetto è di organizzare questi individui in un’associazione che offre un programma di formazione professionale di 12 mesi. Al termine del corso, i partecipanti avranno acquisito competenze nella gestione delle serre, che potranno essere applicate per trovare impiego in vivai locali, mentre un altro gruppo di residenti prenderà il loro posto. Nel corso di cinque anni, questo percorso formativo coinvolgerà 50 residenti.
Sulla base di considerazioni simili, è stato concepito un altro progetto: il Parco di Via delle Pleiadi. Questo progetto integra una serra agricola ad alta efficienza con strutture per la preparazione e la vendita di cibo, oltre a spazi per attività all’aperto. L’obiettivo è creare uno spazio ibrido in cui le soluzioni basate sulla natura possano fornire produzione alimentare e spazi di alta qualità per i cittadini.
15/11/2024
Le piante dovrebbero essere considerate il collegamento tra il sole e la Terra. Senza le piante, l’energia del sole non verrebbe trasformata nell’energia chimica che sostiene la vita. Ma non è tutto. Ogni essere vivente ha bisogno di ottenere l’energia necessaria per la sopravvivenza da qualche fonte. L’energia presente sul nostro pianeta proviene da tre fonti principali: il sole, il calore primordiale derivante dalla formazione della Terra e il calore generato dal decadimento radioattivo di alcuni materiali nella crosta e nel nucleo terrestre. Per scopi pratici, possiamo trascurare i contributi dell’energia geotermica e concentrarci sull’energia solare, la vera fonte che sostiene la vita sulla Terra. Anche l’energia che otteniamo bruciando carbone o petrolio è semplicemente energia solare originariamente catturata dalle piante (intese in senso ampio, per includere tutti gli organismi fotosintetici). Allo stesso modo, l’energia che muove il vento, le correnti oceaniche o le onde ha anch’essa origine dall’energia solare. In breve, possiamo approssimare che, con eccezioni trascurabili, tutta l’energia sul pianeta proviene dal sole.
Dopo aver semplificato la questione ai suoi termini fondamentali, possiamo tornare alle piante e al ruolo centrale che esse svolgono nel garantire la sopravvivenza delle specie. Attraverso la fotosintesi, e con l’aiuto dell’energia solare, le piante catturano l’anidride carbonica atmosferica, formando zuccheri—molecole ad alta energia—e producendo ossigeno come sottoprodotto. La quantità media di energia prodotta dalla fotosintesi su scala planetaria è di circa 130 terawatt, circa sei volte superiore al consumo energetico attuale della civiltà umana. Come scrive Primo Levi in The Periodic Table al ciclo del carbonio: “se la conversione organica del carbonio non avvenisse quotidianamente intorno a noi, su scala di miliardi di tonnellate a settimana, ovunque appaia il verde di una foglia, meriterebbe pienamente il nome di miracolo.” Grazie a questo processo miracoloso, la vita ha potuto diffondersi e prosperare. La fotosintesi è essenzialmente il motore principale della produzione di materia organica attraverso mezzi biochimici, la cosiddetta produzione primaria.
Una volta prodotta dalle piante, questa energia chimica—che sia sotto forma di cibo, carbone o petrolio—viene utilizzata come carburante dal resto del regno animale per sostenere la propria sopravvivenza. Gli esseri umani, tuttavia, la utilizzano in modo eccessivo, facendone la principale fonte di energia per il loro sviluppo. Quando questo carburante brucia, produce inevitabilmente sottoprodotti che alterano l’equilibrio ambientale e causano inquinamento. Ad esempio, il CO2 viene emesso ogni volta che avviene una combustione—che si tratti della combustione degli zuccheri e dei grassi per alimentare i nostri corpi o della combustione di petrolio, gas, carbone, legno o qualsiasi altro combustibile originariamente prodotto tramite fotosintesi. Le attività umane emettono circa 29 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. A titolo di paragone, i vulcani rilasciano un quantitativo 100 volte inferiore—solo da 200 a 300 milioni di tonnellate. Il CO2 che si accumula nell’atmosfera è il principale motore dell’effetto serra e dell’aumento delle temperature globali che ne deriva. Attraverso attività come la combustione di combustibili fossili e la deforestazione, gli esseri umani hanno aumentato la concentrazione media annuale di CO2 atmosferica da 280 ppm (parti per milione), dove era rimasta stabile per circa 10.000 anni prima della Rivoluzione Industriale, a 421 ppm nel 2022. L’ultima volta che la Terra ha registrato concentrazioni atmosferiche di CO2 così elevate è stato durante il Pliocene, circa tre milioni di anni fa. In quel periodo, la temperatura media del pianeta era più alta di 4°C, ampie parti del continente antartico erano coperte da foreste e il livello del mare era superiore di 20-25 metri rispetto ad oggi a causa del disgelo.
Naturalmente, il ciclo del carbonio è molto più complesso di quanto descritto fin qui e coinvolge numerose variabili legate alla vita sulla Terra. Ad esempio, non tutta la CO2 emessa dalle attività umane finisce nell’atmosfera; circa il 30% si dissolve negli oceani, formando acido carbonico, bicarbonato e carbonato. Sebbene questa assorbimento oceanico sia vitale perché previene che ancora più CO2 entri nell’atmosfera, provoca anche l’acidificazione degli oceani. Questo fenomeno è responsabile della distruzione delle barriere coralline e influenza profondamente la vita degli organismi calcificanti come i coccolitoforidi, i coralli, gli echinodermi, i foraminiferi, i crostacei e i molluschi, impattando infine l’intera catena alimentare.
In sostanza, la questione centrale è che, fino a tempi recenti, il ciclo del carbonio funzionava in modo efficace. Il CO2 veniva rilasciato nell’atmosfera attraverso processi come combustione, digestione e fermentazione, per poi essere riassorbito dalle piante tramite la fotosintesi—un ciclo bilanciato capace di gestire significative fluttuazioni dei livelli di anidride carbonica senza alterare l’equilibrio. Per milioni di anni, questo sistema ha funzionato come un orologio. Tuttavia, con l’avvento della Rivoluzione Industriale, l’immenso volume di CO2 rilasciato nell’atmosfera tramite l’uso dei combustibili fossili è diventato talmente grande che le piante non sono più in grado di riassorbirlo completamente. Oggi, è necessario che tutti riducano le proprie emissioni di anidride carbonica il più possibile. Non è qualcosa che possiamo rimandare: da singoli individui a imprese, fino alle nazioni, è il momento di agire. Esistono soluzioni, e sono efficaci. Se adottate da una parte significativa della popolazione globale, potrebbero garantire un futuro sostenibile. Molte di queste soluzioni sono racchiuse nel concetto di Energy Park.
Quello che trovo più affascinante di questa idea è che, sia attraverso i pannelli solari alimentati dalla tecnologia umana, sia attraverso le piante sviluppate dall’evoluzione, l’obiettivo finale è lo stesso: trasformare l’energia luminosa del sole in una forma utilizzabile dagli esseri umani. Che il risultato finale siano gli zuccheri nelle piante o l’elettricità dai pannelli solari, progettare un parco dove l’umanità collabora—per una volta—con la natura per ridurre al minimo il suo impatto planetario è emozionante e suscita speranza per un futuro migliore.
08/11/2022
Le città, diventate l’habitat principale dell’umanità, sono anche i principali motori della nostra aggressione ambientale. Attualmente, circa il 70% del consumo energetico globale e oltre il 75% dell’uso delle risorse naturali globali sono attribuibili alle città, che sono responsabili del 75% delle emissioni di carbonio e del 70% della produzione di rifiuti. Entro il 2050, le città dovranno accogliere due miliardi e mezzo di persone in più, con un livello di consumo delle risorse che attualmente è difficile da concepire. Di fronte a queste cifre, è chiaro che qualsiasi soluzione al problema dell’impatto umano deve necessariamente coinvolgere le città. Ma quali potrebbero essere queste soluzioni? Fortunatamente, ce ne sono molte, e trasformeranno ogni aspetto del funzionamento urbano: dal trasporto al consumo di acqua, dalla produzione di rifiuti alle emissioni di anidride carbonica, tutto sarà integrato in cicli chiusi che renderanno i sistemi urbani molto più efficienti. Queste soluzioni esistono e, anche se lentamente, riusciranno a mitigare i danni. Ciò che è davvero urgente, tuttavia, è cambiare la nostra concezione della città.
Non è possibile comprendere appieno il funzionamento di un ambiente complesso come una città concentrandosi esclusivamente sui bisogni umani. Paradossale che possa sembrare, solo una prospettiva più ampia può garantire che questi stessi bisogni siano preservati per il futuro. Permettetemi di chiarire: studiare e pianificare le città basandosi solo sui bisogni immediati dei loro abitanti è il modo più sicuro per assicurarsi che questi bisogni non possano più essere soddisfatti nel prossimo futuro. Al contrario, comprendere la fisiologia di una città implica considerare l’intero ecosistema che la definisce. Qualsiasi altro metodo di studio non è altro che una semplificazione.
Oltre il 90% delle città sono costiere e, come tali, saranno sempre più esposte a inondazioni frequenti e pericolose a causa dell’inevitabile innalzamento del livello del mare. Fenomeni atmosferici, in crescita di intensità, causeranno danni sempre maggiori a causa di tempeste, inondazioni, venti e siccità. Questi danni non solo colpiscono direttamente le popolazioni, ma hanno anche significative ripercussioni economiche, interrompendo le attività commerciali e il normale funzionamento della vita urbana. Le ondate di calore—periodi di temperature estreme ben al di sopra della media—diventeranno sempre più frequenti, con effetti disastrosi sulla salute pubblica. Con l’aumento delle temperature, aumenta anche la prevalenza di alcune malattie potenzialmente letali. Un studio del 2017 ha stimato che, anche se riuscissimo a limitare l’aumento della temperatura media globale a soli 2°C sopra i livelli pre-industriali entro la metà del secolo—uno scenario sempre più improbabile—il numero di morti nelle città causato dalle ondate di calore supererebbe i 350 milioni.
Come se non bastasse, dobbiamo anche considerare che gli effetti dell’innalzamento delle temperature sono amplificati negli ambienti urbani. Il cosiddetto effetto isola di calore urbana, ad esempio, fa sì che le temperature nelle città siano significativamente più alte rispetto alle aree rurali circostanti, rendendo le zone urbane molto più suscettibili ad aumenti di temperatura. A livello globale, si stima che le isole di calore urbane contribuiscano da sole ad un aumento medio della temperatura di 6,4°C nelle città. Questa è una cifra variabile, a seconda della posizione geografica e delle caratteristiche specifiche di ciascun centro urbano. Questo è un chiaro indicatore dell’enorme impatto che i nostri metodi di costruzione hanno sull’ambiente.
La prima persona ad identificare questo fenomeno fu un chimico e farmacista inglese, Luke Howard, che non solo osservò inizialmente l’effetto isola di calore urbana, ma riconobbe anche che la differenza di temperatura è maggiore di notte rispetto al giorno. Nel 1820, nel suo trattato The Climate of London—il primo lavoro mai dedicato al clima di una città—Howard documentò nove anni di dati sulla temperatura raccolti nel centro di Londra e nelle aree rurali circostanti. Notò che “la notte è più calda di 3,7°F (equivalente a 2,1°C) in città rispetto alla campagna”. Questa osservazione gettò le basi per comprendere come l’urbanizzazione amplifichi le variazioni di temperatura, sottolineando il ruolo cruciale che la pianificazione e il design urbani svolgono nel plasmare non solo i climi locali, ma anche le tendenze ambientali globali.
Le ragioni di questo surriscaldamento sono molteplici e derivano dal modo in cui le nostre città sono costruite e funzionano. Uno dei principali fattori che contribuiscono alla formazione delle isole di calore urbane è la natura artificiale delle superfici urbane. Queste superfici, a causa della loro impermeabilità e della mancanza di vegetazione, non riescono a raffreddarsi attraverso il processo di evapotraspirazione, a differenza delle aree rurali. Ma non è tutto. Nelle città, le superfici scure assorbono significativamente più radiazione solare, e materiali come l’asfalto e il cemento hanno proprietà termiche che differiscono da quelle delle superfici rurali. Inoltre, una parte considerevole dell’energia utilizzata nelle città—sia dai veicoli, che dall’industria, o per il riscaldamento e il raffreddamento degli edifici—viene dispersa sotto forma di calore residuo, aumentando ulteriormente la temperatura ambientale. Ci sono poi altri fattori: la geometria degli edifici, la mancanza di vento che impedisce il raffreddamento tramite convezione, i livelli più alti di inquinamento atmosferico, e le particelle di polvere che alterano le proprietà radiative dell’atmosfera. Tutti questi elementi nelle città contribuiscono ad alzare la temperatura complessiva dell’ambiente. Quando combinamo gli effetti del riscaldamento globale con il fenomeno tipico delle isole di calore nelle città, i risultati sono tutt’altro che rassicuranti.
Le città sono, quindi, particolarmente vulnerabili al riscaldamento globale. La buona notizia è che sono anche i luoghi dove il riscaldamento globale può essere affrontato in modo più efficace. Poiché il 75% della CO2 prodotta dall’uomo proviene dalle città, è qui che gli sforzi per ridurla devono concentrarsi, utilizzando gli alberi per rimuoverne il più possibile dall’atmosfera. Nel 2019, un team di ricercatori del Politecnico di Zurigo ha pubblicato uno studio affermando che piantare un trilione di alberi a livello globale era, di gran lunga, la soluzione migliore, più efficiente e misurabile per riassorbire una percentuale significativa della CO2 emessa dall’inizio della Rivoluzione Industriale. Nonostante le solide basi scientifiche dello studio, sono arrivate rapidamente le critiche: dove troveremmo lo spazio per piantare un trilione di alberi? Quanto costerebbe? I risultati sarebbero davvero così significativi come stimato? Queste critiche erano in gran parte infondate. Lo spazio necessario per piantare questi alberi esiste, e sebbene il costo sarebbe sostanziale, è molto inferiore a qualsiasi alternativa che abbia anche solo una frazione del potenziale successo di questa iniziativa. Inoltre, se una parte significativa di questi alberi fosse piantata all’interno delle nostre città, i risultati, ne sono certo, sarebbero ancora maggiori. L’efficienza delle piante nell’assorbire CO2 aumenta notevolmente quando sono più vicine alla fonte delle emissioni. Nelle città, ogni superficie dovrebbe essere coperta di piante: non solo i (pochi) parchi, viali, aiuole e altri spazi convenzionali, ma letteralmente ogni superficie: tetti, facciate, strade—ogni luogo dove una pianta possa crescere dovrebbe ospitarne una. L’idea che le città debbano essere ambienti impermeabili e minerali, opposti alla natura, è solo un’abitudine. Nulla impedisce a una città di essere interamente coperta di piante. Non esistono barriere tecniche o economiche che realmente precludano una scelta del genere. E i benefici sarebbero incalcolabili: non solo enormi quantità di CO2 verrebbero fissate proprio dove viene prodotta, ma la vita delle persone migliorerebbe praticamente in ogni aspetto immaginabile. Da una maggiore salute fisica e mentale a legami sociali più forti, da un miglioramento della concentrazione e dell’attenzione a una riduzione dei tassi di criminalità, le piante influenzano positivamente le nostre vite da ogni punto di vista possibile. Perché le nostre città non siano già completamente ricoperte di piante, dentro e fuori, resta un mistero difficile da comprendere, soprattutto considerando i migliaia di studi seri pubblicati sui benefici del verde urbano.
tutti gli articoli
contattaci